Lugano, 8 febbraio 2005
Chi ha vissuto intensamente non muore mai










Peter Lorenzi
30.1.1940
Lo ricordano
i colleghi delle redazioni di Fax e Falò
Memoriale
i seguenti testi sono stati letti da Ruben Rossello ed Enrico Morresi in occasione del funerale di Peter.
Caro Peter,
avevo chiesto che fossero altri colleghi a ricordare in questa circostanza il tuo percorso professionale e umano. Poi, alla fine, è toccato a me; all’ultimo, o al penultimo, di coloro che, anche solo per uno sprazzo, hanno vissuto quella grande esperienza di giornalismo e di televisione, che fu il Telegiornale di Zurigo, dove tu approdasti all’inizio degli anni ’80.
Comincio proprio da lì, perchè so che Zurigo e il giornalismo furono una svolta nella tua vita. Fu infatti in quella redazione e con quel gruppo cosi stimolanti, che tu trovasti improvvisamente spazio e modo per mettere a frutto le tue conoscenze e la tua verve. La persona che eri, la voglia e la capacità di raccontare il mondo, avevano bisogno del giornalismo, di un luogo come Zurigo e di un’esperimento riuscito come quel telegiornale trilingue.
Venivi da una esperienza lavorativa alla Fiat, dove, sì, avevi mostrato molte doti, ma che non poteva certo soddisfare il tuo spirito e la tua curiosità, umana e intellettuale. Il vestito di addetto stampa ti stava manifestamente troppo stretto, cosi come la Torino ingessata di quegli anni.
Nato a Bolzano da madre italiana e da padre germanofono, eri cresciuto perfettamente bilingue, e dunque quella di Zurigo era un’occasione ideale. Certo, la logica del telegiornale era votata all’immediatezza delle notizie; il tuo sguardo più profondo chiedeva altro. Ma già in quell’ambito avevi messo in luce un tuo particolare gusto nel raccontare gli avvenimenti che la cronaca offriva, con un approccio originale e intrigante.
Fu il passo successivo, in parte sofferto, che ti diede la possibilità di dar spazio fino in fondo a quella tua cifra cosi personale. La regionalizzazione del Telegiornale significava venire a vivere in Ticino, un luogo minuscolo, quasi esotico per te, con i suoi infiniti particolarismi, il suo dialetto ancora cosi vivo, anche nei rapporti di lavoro. Ma proprio qui, passato alle rubriche di approfondimento e di inchiesta, hai avuto modo di esprimere fino in fondo quella idea di giornalismo, e di vita, che ti era propria. Il giornalismo inteso certamente come la capacita di cogliere i movimenti profondi e piu significativi della società, ma anche come il gusto per un’ approccio attento al costume e al sentire piu popolare, agli interessi e ai timori della gente.
Mi ricordo che un giorno, io giovane apprendista, tu mi dissi che per capire la Svizzera era meglio leggere il Blick, piuttosto che la Neue Zürcher Zeitung. Erano anni diversi dagli attuali e in cui tante parole avevano un altro significato. Il sentire della gente erano in pochi a cercarlo e non aveva il sapore di oggi.
E cosi continuasti per la tua strada, alternando momenti di rigoroso giornalismo politico e di analisi sociali, a incursioni nel costume e in fenomeni apparentemente piu leggeri. Fu in quegli anni che realizzasti alcuni dei lavori di cui tutti noi conserviamo memoria: la prima intervista di un giornalista occidentale a Micha Wolf, capo delle spie della Germania comunista; il documentario sui figli dei gerarchi nazisti, quello sulla terribile Platzspitz di Zurigo. Ricordo bene altri due lavori in cui avevi intuito che fenomeni allora marginali sarebbero presto diventati realtà importanti con cui fare i conti: il documentario sui primi cosiddetti Vu cumprà e quello sulla nascente Lega lombarda. Bossi era considerato solo un fenomeno folkloristico, e tu invece dicevi che avrebbe finito per dettare l’agenda politica italiana.
Poi la vita. La convivialità, l’amore per lo sci e la buona tavola, i frequenti ritorni nelle Dolomiti, la facilità di stringere nuovi rapporti, che al pari del valore dei tuoi reportage diede notorietà al tuo lavoro. Diventasti collaboratore di Repubblica e venisti chiamato a far parte della commissione dell’esame di Stato per i giornalisti italiani, occupandoti dei candidati di lingua tedesca. Nella stessa commissione sedevano o avevano seduto Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli.
Il giornalismo che ci hai regalato in tanti anni di lavoro appassionato, caro Peter, è un giornalismo autorevole, avvincente e soprattutto un giornalismo fatto per chi lo legge, lo ascolta, lo guarda. Mai autoreferenziale. Con originalità, e con un approccio personale che catturava senza essere ingombrante, tra politica, costume, colore e persino frivolezze, quando queste diventavano significative e finivano per farsi costume.
Il tuo generoso bisogno di condividere, la convivialità che ci hai sempre offerto, e la ricchezza della tua cultura, assieme italiana e tedesca, non potevano non catturare. Diventammo amici e come altri anch’io vissi di riflesso la pagina più importante e forse inaspettata della tua vita di scapolo impenitente: Margherita. Incontrata un giorno, per caso, passeggiando in val di Funes, nella regione delle Dolomiti. Quella che sarebbe diventata tua moglie non poteva che uscire da quel paesaggio da favola che tanto amavi e dove un giorno ti sarebbe piaciuto tornare a vivere. Chissà, scherzoso com’eri, se lei aveva potuto capire subito la serieta’ delle tue intenzioni.
Margherita giorni fa ha scritto di te dicendo che sei stato il suo unico amore. Una bella responsabilità Peter, che ora ti accompagna per sempre. Cosi come il nostro ricordo, quello dei colleghi e degli amici che ti sono stati accanto per tanti anni. Con infinite discussioni, come spesso fanno i giornalisti, ma vivendo e appassionandosi come uomini che amano la vita.
A nome mio e di tutti, grazie per il rigore e l’originalità del tuo lavoro e per tutto ciò che ci hai dato.
Un abbraccio per sempre, caro Peter.
Ruben Rossello, presidente Associazione Ticinese dei Giornalisti
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Sento di dover portare al commiato dal collega e amico Peter Lorenzi la seguente comunicazione. Un giorno Peter (lavoravamo insieme a “Centro”, il magazine settimanale) mi sottopose un quesito di tipo etico. In quei giorni egli era occupato a raccogliere testimonianze nel drammatico scenario del Platzspitz, il giardino della droga a Zurigo. Voleva sapere se fosse lecito moralmente pagare a qualcuno una dose da iniettarsi in vena, e poi filmare la scena. Gli dissi di “no”: queste cose non si fanno. (Non so poi se quel poveraccio non si sia pagato una dose con quelle poche decine di franchi che Peter gli aveva dato per ringraziarlo della collaborazione…). Peter era un giornalista coraggioso ma non sconsiderato: catturare il primo piano della madre che piange il figlio perduto (come fanno oggi molti cronisti d’assalto) non era tra i suoi metodi.
Da quando sono in pensione ci siamo persi di vista, anche se ci incontravamo qualche volta ai concerti perché a entrambi piaceva la musica classica. Dieci giorni fa mi fu comunicato che Peter voleva vedermi. Era malato grave, all’ospedale, e aveva voluto incontrare il Pastore Tognina e me. Ne dedussi che volesse parlare di cose di religione, perché mi sapeva credente. Sfiorammo il problema, durante la visita, io gli dissi parole di speranza, esortandolo a guardare con serenità a qualunque cosa potesse accadergli. Ci fu una seconda visita, non si parlò più di queste cose. Ma era sereno. Oso immaginare che sia capitato a lui quel che accadde al profeta Elia riparato sulla montagna per sfuggire a chi lo cercava per farlo morire. Elia si aspettava che Dio lo venisse a salvare dentro manifestazioni eccezionali della sua presenza: nel tuono, nel fulmine, nel terremoto, nella tempesta. Niente capitò di tutto questo: Elia avvertì solo “il sussurro di una brezza leggera”, dice la Bibbia (1Re,19,9). Il Signore era in quel vento. Oso sperare che il mio Dio sia stato in tal modo rispettoso della riservatezza con cui il caro Peter si teneva rispetto alla fede, e lo abbia comunque consolato nel modo discreto che Egli conosce.
Enrico Morresi